Cosa hai fatto ogni giorno per insegnare il bene, per insegnare l’amore

Oggi, forse, ho aggiunto un altro tassello importante nella ricerca introspettiva della mia ragione di vita, del mio “perché sono qui e ora”, dopo che qualche tempo fa ho finalmente riconosciuto a me stesso, e accettato con gioia, che la vera essenza di quello che mi rende vivo, che mi dona il sorriso, è aiutare le persone a migliorare la loro condizione. In qualunque ambito o situazione, esercitandomi e crescendo nella compassione, con un’accezione più buddista del termine, rispetto al significato latino. Senza la pretesa di aiutare solo “chi ne ha bisogno”, perché la disarmante e candida realtà è che tutti abbiamo bisogno di aiuto, e tutti ne meritiamo.

Ieri ho visto un tweet che parlava della Siria e di come, probabilmente, siano state usate armi chimiche sulla popolazione, con foto di bambini all’ospedale. Oggi leggo un altro post, e da li un altro ancora, ma dello scorso anno. Le immagini mi colpiscono con una forza devastate, sento il profondo bisogno di fermarmi e meditare per non lasciarmi scorrere addosso questa sensazione. Una sensazione che ha risucchiato in un lampo tutta la mia energia, mi ha lasciato grigio e senza sorriso, in un buco nero profondo come la tristezza, lo sconforto e la passiva accettazione negli occhi dei bambini delle foto. Svuotato del mio giallo.

Le facce di quei bambini mi fanno pensare a quella di Leonardo. Grazie a lui sto scoprendo quanto un bambino piccolo sia totalmente indifeso dalle azioni di altri e ne possa solo subire le conseguenze, con una tale capacità di accettazione solo perché ancora sta imparando come si vive. Quando gli succede qualcosa di inaspettato non si arrabbia, al massimo piange, cercando di apprendere e di normalizzare, di creare così la sua aspettativa su come funziona il mondo diventando, per emulazione, parte stessa di quel mondo a cui viene esposto. Essere così innocenti nell’approcciare la vita, così indifesi e in balia dell’ambiente che li circonda, così genuinamente aperti a qualunque cosa accada, mi fa spesso riflettere sulle implicazioni profonde e immense dell’avere la responsabilità sulla vita di qualcuno, sulla sua crescita. Nei loro occhi ho visto gli occhi di mio figlio e di tanti altri bambini che incontro in giro, e mi ha fatto male. Tanto male.

Le foto di una guerra, l’ennesima, che ha portato i bambini all’ospedale, i dottori che provano a ricucire cicatrici, fisiche e mentali, che sappiamo tutti non passeranno mai realmente. E dell’innocenza dei bambini a cui viene imposto tutto questo. C’è sempre un piccolo dubbio che mi rimane quando sento dire che “i civili non hanno colpa in una guerra”, perché in una visione più olistica magari anche il perpetrare una cultura che non ripudia completamente l’odio, ma lo supporta anche solo con quasi impercettibili sfumature giornaliere, può contribuire a portare la guerra all’uscio di casa. Magari, sottolineo ancora. Ma ora, da genitore, non ho il minimo dubbio che i bambini siano innocenti e che sia inequivocabilmente sbagliato e ingiusto esporli a questa forma di male, di dolore, di crudeltà. Anche, più banalmente, a piccole occasioni di non-amore: da quando vengono maltrattati per la noncuranza o egoismo di qualcuno (ancora ricordo la sera al pub con una mamma che aveva lasciato il bambino solo per almeno due ore, a giocare al tavolo con il telefono, mentre lei parlava al bancone con altre persone, e gli occhi tristi di quel bambino e di quante volte avesse chiesto di andare via o di andare a dormire), a quando li si sgrida per colpe che non hanno, ma che dipendono da nostri comportamenti o aspettative. Figuriamoci coprirne il corpo con del sangue, loro o di altre persone. Non hanno colpa di essere li, non hanno deciso, stanno semplicemente subendo le decisioni di altri.

E, durante la meditazione, ho realizzato con chiarezza due cose:  la prima è che non si può combattere per il bene, è un ossimoro. Ma si può provare a diffonderlo, ogni singolo giorno. E la seconda è che, pur non avendo ancora afferrato il “perché sono qui e ora”, nel frattempo voglio misurarlo sul cosa ho fatto ogni giorno per insegnare il bene, per insegnare l’amore. In attesa di arrivare a capire il senso stesso delle mia vita.

Non posso salvare tutti i bambini esposti alle guerre e alle occasioni di non-amore quotidiane. Ma insegnare è il cardine, è l’atteggiamento attivo potenzialmente in grado di portare un cambiamento. Senza, vincerebbe ciò che istintivamente siamo in termini evoluzionistici: esseri viventi con un forte individualismo che lottano per la loro sopravvivenza e supremazia. Un individualismo antitetico al nostro tendere a diventare esseri sociali. Individualismo che, alla fine, porta a bombardare i bambini con armi chimiche.

Per referenza, queste sono le tre foto, tra le molte presenti, che mi hanno colpito piu’ di tutte. I crediti vanno ai rispettivi fotografi (Sameer Al-doumy e Abd Doumany).

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